La fiaba del paese fragile

Da bimbi le fiabe ci hanno sempre insegnato qualcosa. Ed oggi invece che siamo diventati adulti è ancora possibile ricreare quella alchimia?!?

Mancava poco alla mezzanotte! 
3… 2… 1… 
Auguriiii!!!

Iniziava un nuovo anno, con le speranze, i desideri e le ambizioni che, immancabilmente, sbocciano nelle ultime ore di quello stanco che ci sta per abbandonare, come fiorisce nella sua primavera un mazzo di Nontiscordardimé… 
A far posto ai festeggiamenti, solo un malinconico ritorno alla vita quotidiana, dal sapore velatamente amaro. 
In fondo, gli abitanti di quella porzione di Fiaba sembravano ignari di quanto in effetti a loro non mancasse proprio nulla, nulla più del necessario, ma la definizione e soprattutto l’interpretazione di questa condizione, generava un curioso fraintendimento che era alla base del loro vivere sempre più frenetico e caotico, spingendoli inconsapevolmente verso un allontanamento dalla vita e dal mondo fatato nel quale vivevano, teatro silente del loro affannarsi. 
I primi timidi approcci di una nuova primavera, iniziavano a muovere lentamente i propri passi, ed ognuno, complice una nuova stagione, si spingeva a sognare, programmare ed organizzare affinché l’estate che si affacciava, portasse a compimento tutti i sogni, le aspettative tanto agognate, lontani anni luce invece, da un pensiero distopico, forse più calzante per i tempi che si sarebbero, a breve, delineati. Dalla terra posta idealmente dove sorgeva il sole, qualcuno parlava di una nube, di un drago alato che, con gli occhi di fuoco, ti rubava il fiato, cancellava i sogni, distruggeva l’amore e via via portava gli abitanti di quei luoghi, tanto lontani quanto poco conosciuti, ad una morte atroce, una morte da affrontare in una struggente solitudine.

“Saranno le solite dicerie! Suvvia!!!”
“Sempre saputo che fosse un popolo di svitati!”


Passò inosservato il primo segnale…
“Sarà una fandonia, storielle inventante… Una latente minaccia, improbabile tanto quanto indovinare il tempo che farà il giorno successivo…”

Poi ne arrivò un secondo…
“Ecco i soliti che strillano sempre per nulla!”

… il terzo…
“Non può succedere questo… Non può accadere questo a noi…”

ed infine accadde…

La morte iniziò a fare il proprio lavoro.
Lei in questo, era immancabilmente puntuale e precisa, non seguiva le regole umane, non ascoltava le vane promesse o le ultime suppliche; ricco, potente, servo o contadino, falciava in silenzio, con spietata precisione.
Alla sorpresa, allo stupore, non seguì una reazione che oggi, col senno di poi, ci sembra tanto evidente e scontata, anzi terribilmente necessaria… D’altronde ognuno riteneva troppo alto il conto da dover pagare, quello di ammettere che la vita stava per cambiare il proprio corso definitivamente, tanto da far scegliere ai paesani… il Non Fare…
Era come decidere di prendere tutti i propri averi, caricarli sul carretto, ed allontanarsi dall’unica casa che si possedeva.
…Ma poi… perché? 
Perché credere “agli altri”, convincersi che il Flemma, il fiumiciattolo che scorreva placido ai margini del loro paesello, tutto ad un tratto, si sarebbe ingrossato e, tracimando con una immane ed inconsueta potenza, si sarebbe trasformato infine in mostro, un mostro che avrebbe travolto ogni angolo dell’amata Contea? Dovevano decidere dunque, a causa di sciocche dicerie, di rinunciare ad ogni avere?!? 
Alla propria vita?!? 
Ma neanche per sogno!
Gli abitanti si ritrovarono, alba dopo alba, a guardare sempre più preoccupati verso l’orizzonte, perché è da lì che iniziò a stagliarsi la nube. 
Ora era realmente… La minaccia.

Gli OTTIMISTI continuavano a nutrire dubbi sul pericolo che incombeva, ripeto, pareva veramente un prezzo altissimo quello da pagare, rivoluzionare la propria vita, perdendo dei punti saldi di riferimento. 

Altri gettatisi nello scoramento più buio, i PAUROSI appunto, si barricarono in casa, e poi, come se non apparisse sufficiente, si isolarono sempre di più iniziando a diventare dapprima silenziosi e, man mano che la paura cresceva connotandosi sempre più in puro e vero terrore, si scoprirono diffidenti e sospettosi, per poi trasformarsi in persone astiose e scontrose, persino verso i propri affetti più cari.

Una frangia nutrita invece, gli SPAVALDI, nonostante il buio progressivo che si stava diffondendo, non provarono alcuno stupore nel professarsi incuranti, pieni di livore, arrabbiati (che poi verso chi?!?), e pian piano, anche loro, iniziarono un personale cammino di sofferenza, colmi di una rabbia inespressa, che covava come brace ardente sotto un velo di cenere.

Iniziarono col coprire la bocca con delle bende… queste non lasciavano che intravedere gli occhi.

“Pare che il male soffi la morte attraverso di essa!”

Le chiamarono “maschere”, perché in quel modo essi cercavano di camuffarsi agli occhi della morte, perché in quel modo loro perdevano la propria identità.

La morte gongolava, non era mai stata così felice! 
Ella passava di uomo in uomo… Bastava soggiogarne uno, affinché ignaro, la guidasse diritto verso i propri famigliari. Tardi, troppo tardi egli scopriva il proprio destino, ed allora terrorizzato, cominciava a fuggire da tutti, con la vana speranza di salvare la propria famiglia, con l’unico risultato invece, di morire soffocato dagli stenti, soggiogato da una infinita solitudine, con il cuore colmo di rimorso per aver portato, egli stesso, la morte ai suoi cari.

Gli OTTIMISTI, schiacciati dall’ineluttabile realtà, furono loro malgrado costretti a scendere a patti con la paura, a guardare la propria vita sgretolarsi, senza riuscire nel frattempo, a vederne un’altra nuova sorgere.

I PAUROSI che avevano scelto volontariamente uno spietato isolamento, pagavano dazio con la lontananza, con la solitudine, prigionieri delle proprie paure, delle proprie fobie.

Gli SPAVALDI, rosi dalla rabbia, inizialmente additarono il fato, il destino infausto, per poi passare ad incolpare gli altri, chi non la pensava come loro, ad inveire contro chi pregava altari diversi, puntare il dito contro chi non professasse il loro stesso credo, accusare con forza i raminghi, chi non era abitante del paese, oppure chi aveva solo la colpa di essere transitato nella Contea; fino a sfociare, dopo una folle corsa, in un odio infinito contro chi non fosse semplicemente… Loro stessi!

Sporadicamente, e a turno nelle famiglie, gli abitanti uscivano costretti per approvvigionarsi del cibo, del necessario per vivere, a passo veloce e guardando in terra, evitando con cura, e talvolta con odio, di avvicinare, o farsi avvicinare, da alcuno.
Lesti, sospettosi, oppure impauriti, raggiungevano l’unico emporio del paese, per fare un pronto ritorno, con inconsueta sollecitudine, presso le rispettive abitazioni. I normali gesti di saluto, di affetto, di reverenza erano stati spazzati via dal gelo dal Male che inondava ogni angolo del paese, ogni anfratto del loro cuore. Solo chi era già normalmente riluttante a palesare queste manifestazioni esteriori si beava, soddisfatto, di questa nuova condizione, mentre per chi era sempre pronto a sorridere, salutando ogni essere umano vivente gli capitasse a tiro, ciò rappresentava l’ennesimo disagio. Con quelle “maschere” si stentava a parlare, a riconoscere e a farsi riconoscere, rendendo sempre più lontane le persone fra loro.

La Nube, come se non bastasse quello già narrato, stava determinando un ulteriore conseguenza: la sconcertante perdita del quotidiano vivere degli abitanti di quel paese legato al lavoro; la diminuita, se non azzerata, disponibilità economica di ogni singolo nucleo familiare; il dissolversi di tutti i progetti e di qualsiasi sviluppo per progredire. Il Male quindi, non solo stravolgeva gli aspetti più intimi, più delicati del vivere degli stessi popolani, con i cari e con la comunità, ma stava minando le basi sociali sulle quali un’intera Contea si reggeva.

I giochi nella piazza della domenica, il tiro alla fune, il lancio della palla, il ballo della quadriglia, fino al Nascondino Notturno nei campi - gioco che sanciva la fine dei divertimenti - sembravano, solo pochi giorni prima, dei momenti frivoli, niente di veramente importante, addirittura semplici futilità; in definitiva, aspetti di nessun conto. Ora invece, il ricordo di quei momenti, di quei semplici gesti, assumeva una valenza assoluta e non per la sola loro struggente mancanza, ma per quello che avevano da sempre creato e rappresentato: il semplice e cristallino Vivere di ogni anima, costruendo, allo stesso tempo, una immensa forza comune di condivisione di tutte le Anime diverse del Paese. 
Il modo, ed il Mondo quindi, dove OTTIMISTI, PAUROSI e SPAVALDI, trovavano un terreno comune dove costruire insieme qualcosa che li identificasse tutti e che non togliesse, allo stesso tempo, niente a nessuno di loro, nonostante le profonde diversità ed unicità; una splendida magia quindi…

Erano quindi caduti in un punto così basso, in un abisso così profondo, da far sembrare impossibile qualsiasi possibile insperata rinascita.

Il Male aveva portato il Buio, il Male aveva spazzato via… L’Amore.

Eppure… esattamente come accade quando ci gettano in un profondo pozzo nero - inizialmente siamo spaventati, ci lasciamo prendere dal terrore e ci sentiamo sopraffatti dallo sconforto, ma dopo i primi istanti iniziamo a scorgere il confine di dove ci troviamo, di quello che ci circonda, i nostri occhi si adattano al buio ed iniziamo a scorgere anche particolari che forse non avevamo mai visto - una visione tutta nuova, rimasta sempre sconosciuta a noi mentre eravamo accecati dalla luce e dal clamore del vivere quotidiano, cominciò a prendere corpo.

E questo accadde…

I bimbi, quasi mai considerati attori principali del vivere quotidiano, stavano subendo il momento, stavano vivendo tutto il loro dramma, a margine, volontariamente isolatisi dagli affanni e dalle ansie che i padri facevano loro respirare.
Con il passar dei giorni, avevano creato uno spazio, una zona franca tutta loro, dove trovare la giustificazione del nuovo vivere; avevano inventato la forza di rendere intoccabili i propri sogni, di guardare quello che accadeva sotto una luce diversa, e quando questo non era più sufficiente, distorcevano la realtà, piegandola ai loro bisogni e trasformandola in una piccola isola felice. Ovviamente, il tutto, nei limiti del possibile. Chi aveva dei fratelli delle sorelle, viveva delle piccole gioie di ognuno, di un racconto, delle risa, di un abbraccio inaspettato; se uno di loro sprofondava in una più che giustificata tristezza, erano gli altri a tendere una mano, diverse mani, per ristabilire un vivere accettabile e sereno. Ma ancora più magico era lo stratagemma che avevano ideato i bimbi soli, i figli unici; dal nulla, infatti, presero vita amici inventati, figure non reali con le quali trascorrere i momenti più pesanti e delicati.

I bambini avevano impedito al Male di distruggere il loro Amore… 

Forse prendendo spunto da questo miracolo che i piccoli stavano compiendo, forse per aver acuito e mutato il proprio modo di vedere sé stessi e le cose che li circondavano, o forse solo inconsapevolmente, qualcuno iniziò a compiere dei gesti, a fare cose inaspettate, a dare vita ad un nuovo modo di comportarsi.
A tratti in modo imbarazzato, a volte goffamente, le persone timidamente iniziarono a mutare le vecchie abitudini che sembravano inamovibili, sostituendole con comportamenti e strategie tutte nuove per relazionarsi in quel mondo devastato. 

Lasciare di nascosto un pane scuro di segale davanti l’uscio di chi non poteva mangiare, di chi aveva perso tutto. 
Restare desti davanti al fuoco, per cucire uno scialle, un vestitino da bimbo, una coperta fatta di tutti scampoli di tessuto inutilizzato, per poi farlo avere di nascosto a chi ne avesse più bisogno. 
Salutare per primi, senza avvicinarsi… “Mastro Dionigio! Sono io… Zenone! I miei ossequiosi saluti…”, magari accompagnando il tutto con una teatrale genuflessione!
Chiedere un aiuto per andare nei campi a qualche uomo che ha perso ogni bene, anche se magari non se ne aveva veramente bisogno, tanto per condividere un boccone frugale, un tozzo di pane ed un boccale di birra chiara, per spartirsi a fine giornata un poco di raccolto, in modo che quel padre di famiglia riesca nuovamente a sentirsi fiero, e senta forte in lui la capacità di poter ancora riportare a casa un poco di cibo per sfamare i propri figli. 

Dalla sorpresa iniziale di chi era oggetto di quelle piccole attenzioni (vogliamo chiamarle… insignificanti, forse?!?), iniziò lentamente a… “muoversi” qualcosa…

Un sassolino gettato in un piccolo specchio d’acqua, dove la stessa, da troppo tempo oramai ristagnava, questo fu l’effetto!

Lentamente chi aveva beneficiato di un piccolo sorriso, anche di un semplice gesto, trovò a sua volta il modo, la forza, di compierne un altro a propria volta, nei limiti delle proprie possibilità, ancora più significativo, e poi un altro… e poi a quello ne seguì un altro… e poi un altro ancora… 

Tanto si era diffusa rapidamente la Nube, quanto quelle briciole di Amore, con una rapidità impensabile appena pochi giorni prima, contaminarono le persone, intere famiglie, per poi risultare chiaramente visibili in quasi tutta la popolazione della Contea.
Si diffuse un calore, una speranza nata sinceramente dal nulla, o forse nata dalla emozione, dal sentimento che li stava effettivamente salvando… L’Amore!

Il Male non voleva solo prendere uomini, donne o bambini… La Nube, ora appariva chiaro, agognava distruggere radicalmente l’Amore che legava ogni singola anima a quei luoghi, alle abitudini, a quelle consuetudini così apparentemente “inutili” prima della devastazione e che ora, invece, si palesavano in tutta la loro “umile” importanza, come autentico fondamento della vita di tutti i giorni. 

Il normale gesto di un saluto tornò ad avere il valore che effettivamente meritava, gli abitanti stavano forse iniziando a comprenderne la valenza di quello come di altri piccoli segnali, e così, sempre più fieri e caparbi, non persero l’occasione di ricominciare a farne quotidianamente uso.
Tornarono a mostrarsi forse, le persone che avevano dimenticato essere da troppo tempo, uomini che vivevano sulla stessa terra, uomini che condividevano speranze e progetti e che, pur rimanendo unici a loro modo, desideravano erigere, tutti insieme, una nuova e più equa realtà.

Tutto scorreva così facilmente nel senso giusto?!? 
Ma nemmeno a pensarci, ovviamente.

L’uomo, inteso come umanità, ha bisogno di avere scelte davanti, soffre spegnendosi lentamente quando di fronte a lui non ha che una sola strada da percorrere. 

Ed ecco che il popolo si trovava, spaventato e disorientato, a dover compiere una scelta molto importante…

Per gli OTTIMISTI sembrava un pizzico più facile imboccare una strada che parlava di… Amore; in fondo, senza chiedersene nemmeno il perché, essi si erano prodigati a non diffondere odio, a non cadere in quella pericolosa spirale di rabbia, di rincrescimento, che li avrebbe spinti ad aizzarsi fra loro, a scagliarsi gli uni contro gli altri, cosa che invece sembrava ad altri essere puntualmente accaduta. 

Gli SPAVALDI appunto, loro rosi dalla rabbia, sempre pronti e disposti a dare addosso, incolpare, inveire contro tutti e tutto, tranne che a riconsiderare invece la loro stessa posizione, loro… avrebbero trovato la lucidità di compiere, invece, lo sforzo più grande? 
Mettere da parte l’orgoglio, cospargendosi il capo di cenere, apprendendo così la lezione più dura?
Cosa infine avrebbero scelto fare? 

I PAUROSI, immobilizzati dal terrore di vivere quello che stava accadendo, quelli che in un certo senso non avevano avuto alcun coraggio, la minima forza di scegliere, di prendere almeno una decisione, ora sarebbero stati in grado di rialzare la testa, di riprendere in mano la propria vita per diventarne finalmente protagonisti?

Inutile nascondere che qualcosa era mutato, a qualsiasi tipologia gli abitanti sembrassero appartenere, o non appartenere affatto: si avvicinava sempre più concretamente l’esigenza di un confronto, rotto oramai il muro del silenzio, dell’isolamento. 

I rintocchi delle campane scossero il torpore nel quale tutti sembravano essere in preda caduti quella domenica mattina.
Un suonare incessante, come per un allarme, un segnale chiaro di raccolta nella piazza centrale del paese. Pensare che l’ultima volta che le campane avevano chiamato la popolazione con la stessa insistenza, era stato in occasione del passaggio dell’araldo che promulgava l’editto circa la dichiarazione di fine carestia…! Ma soprattutto significò l’inizio di una intera settimana di festeggiamenti con il poco che a loro era rimasto, sollevati da quella disgrazia che, vista adesso, sembrava niente altro che un piccolo fastidioso inconveniente, al confronto di quella realtà che erano costretti a vivere. 
Tutti ricordavano l’immagine della Custode dei Luoghi ferma nel centro della piazza, già pronta ad accoglierli tutti, l’abito lungo e nero delle cerimonie importanti, l’abito che attestava il suo ruolo di guida, membro più autorevole ed anziano della comunità, Monna Aretusa. 
Severa ed intransigente, quanto certa incarnazione di Mamma giusta per ogni singolo membro di quella comunità.

Era nuovamente lì… le braccia strette intorno al corpo, in piedi, ferma ancora nel centro della Piazza.

Trascurabile quel velo di polvere sull’abito nero, segno di stanchezza, indice di difficoltà, quella che tutti stavano vivendo in fondo, lei più degli altri, consapevole della gravità del ruolo che rivestiva per tutti. Era arrivato il momento di decidere insieme, in buona sostanza, la strada da percorrere. Avrebbero deciso di intraprendere un lento cammino insieme per uscire da questo flagello? Oppure avrebbero sancito nella litigiosità più sfrenata la malaugurata disgregazione di una comunità, la resa definitiva…?!?

I paesani con circospezione, cautela, uno alla volta, indossando le maschere, si raccolsero nell’ampio spazio, pur sempre distanziati gli uni dagli altri, ma tutti certamente incuriositi da quella inaspettata chiamata. 
Monna Aretusa La Custode non era il tipo di donna che amava girare intorno ai fatti, tergiversare perdendosi nell’eloquio, usare diplomatiche strade per arrivare al cuore del problema. Non si soffermò volutamente in drammatici ed inopportuni racconti, spiegazioni e dolorosi sunti, la realtà era davanti agli occhi di tutti, li aveva radunati non certo per una semplice parola di conforto, una paternale manifestazione di affetto: lei sicuramente aveva qualcosa da proporre, qualcosa di concreto.  

“Tutti noi sappiamo che non esiste una soluzione a tutto questo, ma forse c’è da riconoscere una strada migliore di quella fin qui percorsa per riuscire a tornare dignitosamente a vivere, con tutti i dubbi e le incertezze; iniziare una nuova vita per metterci alle spalle tutti gli errori un tempo fatti, tutto il dolore che oggi viviamo. Ecco il mio suggerimento. Dai racconti dei padri, dalle storie narrate davanti i falò nelle sere d’inverno, tutti crediamo esista ancora, nella grotta del Monte Bruno, il Grande Solingo, l’Esule Eremita, depositario delle più grandi memorie dei Padri dei nostri Padri, fino alla notte dei tempi… E voglio sperare che egli ancora vivo sia, per consultare il suo Saggio Consiglio!!!”
Un brusio di stupore non tardò ad alzarsi dalla folla raccolta, chiaro e distinto, in quella mattina assolata di fine primavera.
“… Lo so!!! – Tuonò la Custode – LO SO!!! Ci siamo messi alle spalle quella figura, per opportuni motivi, per una saggia decisione, presa dal Consiglio del Popolo, nei tempi che furono! Ma ora vi dico che una voce distante, una voce sussurrata da sapienza antica, lontana da quello che stiamo vivendo in questo tempo nefasto, è quello che ci occorre per guardare oltre il buio che cela il Sole ai nostri occhi, vedere oltre il dolore che tormenta i nostri cuori, impedendoci, addirittura, di porre un piede davanti all’altro… lasciandoci immobili in questo terrore!”

A Monna Aretusa non era mancata la lucidità nel comprendere lo stato di totale immobilismo che attanagliava il suo popolo; ecco il motivo della sua felice intuizione e del suo saggio consiglio di passare all’azione. Esso doveva essere solo rapidamente digerito dalla maggioranza dei capifamiglia, prima cioè che l’onda di Amore iniziasse a spegnersi, come ragionevolmente temeva potesse accadere la Grande Madre.

Due albe più tardi, nascosti nelle tenebre, quando il sole ancora non decideva a sorgere, Otto, Anacleto e Goffredo, i tre uomini più rappresentativi, padri delle famiglie più importanti della Contea, a passo veloce si incamminarono verso un futuro che al momento pareva ammantarsi di un buio ancora più fitto dello stesso che ora li inghiottiva e che li sottraeva alla vista della Custode e della propria gente. 

Cercare in una taiga secolare un eremita che non desiderava essere affatto trovato, interrogarlo, sempre ammesso che lui li avesse accolti e lasciati parlare, ed infine essere depositari del verbo per poi fedelmente riportarlo a Monna Aretusa… beh… non incoraggiava di certo il loro incedere. Diverse volte si ritrovarono a mettere i piedi sulle orme, che solo poche ore prima, loro stessi avevano lasciato, faticando a trovare quindi il giusto sentiero verso la verità. Solo in tarda mattinata, sotto un sole già troppo caldo, Goffredo indicò una strada impervia, all’ombra di una grande quercia, che pareva battuta solo da animali selvatici; solo per stanchezza forse, Otto ed Anacleto non si opposero e seguirono il compagno di viaggio.
Arrivarono sul margine di un crinale che si affacciava su una stupenda e sconosciuta piccola valle, ed immediatamente scorsero uno sbuffo di fumo in lontananza, all’ingresso di una inaccessibile grotta.

A ragionevole distanza da quella grotta, si fermarono per parlottare e studiare un modo di presentarsi, senza spaventare il Saggio, stabilendo insomma cosa dire e, soprattutto, chi tra i tre doveva fare da portavoce. 
Si resero conto di non essere minimamente pronti a palesarsi; era come se nessuno dei tre avesse mai in fondo creduto alla reale possibilità di trovare l’Eremita. Oltre tutto scoprirono di non trovarsi affatto d’accordo sul discorso da fargli.

Erano ancora alle prese con… 
“Sono Goffredo Acquacheta, noi veniamo dalla Contea… “ 
“Grande Solingo sono Otto Terramossa, siamo venuti per…”
meglio ancora… 
“Eremita sono Anacleto Manipesanti, noi siamo i capifamiglia…”

Concentrati insomma a cercare il modo migliore per non sprecare la possibilità di fornire di sé una buona prima impressione, trasalirono quando un essere di un metro e cinquanta scarso di altezza, nudo se non per un “copriqualcosa” di giunco intrecciato, capelli arruffati e indefiniti, passò tranquillamente in mezzo a loro, con perfetta noncuranza, senza nemmeno degnarli di uno sguardo, per andarsi a sedere comodamente all’ingresso della caverna, pochi metri più in là, accanto al fuoco.
Se non fosse stato per la drammaticità della situazione, la scena sarebbe risultata a dir poco esilarante! 

Si avvicinarono con lenta circospezione e… 
Nulla…
L’Eremita rimaneva affaccendato a cuocere, in una pentola di terracotta, un qualcosa di simile ad uno stufato. 
Iniziarono, balbettando, a narrare la storia di quello che stava loro accadendo, parlando a turno, enfatizzando non poco il racconto, quando si arrivò al punto di riportare i momenti più drammatici, ma… 
Nulla… 
Lo strano omuncolo si nutrì con grande appetito, mangiando tutto il contenuto della pentola e, una volta terminato, si stiracchiò adagiandosi su un giaciglio senza risparmiare ai suoi ospiti un compiaciuto e fragoroso rutto, evidente segnale di aver ben gradito il pranzo.
I tre uomini rimasero letteralmente senza parole, avevano terminato il racconto, ed imbarazzati, visto il comportamento del Solingo, non sapevano più cosa dire, come comportarsi, nemmeno un cenno per loro, neanche uno sguardo. Si scambiarono delle occhiate interrogative, valutando, senza dirlo apertamente, di voltare le spalle per fare ritorno al paese. Ma proprio mentre si accingevano ad intraprendere il cammino di ritorno… 

“… Il ciliegio acido, quello grande, alto, vicino il Ponticello del Tramonto, prima della grande ansa del Fiume Flemma… ha iniziato a fiorire e mostrare le proprie gemme?”

Si voltarono come colpiti da una pietra nel mezzo della schiena… Lo guardarono increduli, non solo perché aveva rivolto loro parola, ma soprattutto, per la inadeguatezza della domanda, dopo tutto il racconto!

“Si mio Grande Solingo… il ciliegio ha mostrato fiori, e da pochi giorni, alcune gemme sono spuntate sui suoi rami…”

Silenzio…
… Ancora Silenzio…

“… i vostri piccoli figli, la vostra progenie… cosa ha fatto in tutto questo tempo di malattia…???”

“I bimbi hanno sofferto e soffrono ancora, ma mai hanno perso il desiderio di restare insieme, uniti, ai fratelli, alle sorelle… chi non ne aveva ha continuato a giocare come se gli amici fossero lì…. Con loro…”

“…le vostre mucche nei ricoveri, le capre nei campi… hanno dato alla luce i vitellini…  i capretti… ?!?”

“Si mio Saggio… essi sono venuti alla luce…”

“Come l’anno precedente? Come gli anni ancora addietro? Come sempre è accaduto fin dai tempi dei tempi?!?”

“Si… è accaduto così… proprio così… come sempre è accaduto fin dai tempi dei tempi…”

Stavano per perdere la pazienza… il fastidio, il rincrescimento chiaramente leggibile dal tono della risposta e dal ripetere, rimarcando, l’ultima frase dell’ennesima domanda senza senso.

L’Eremita, per la prima volta, li guardò fisso negli occhi, ognuno di loro, proprio fisso nei loro occhi… 

“… Stamane vi siete ritrovati a percorrere lo stesso sentiero da poco calpestato, girando in tondo come sprovveduti, ma quando finalmente avete deciso di prendere quello al fianco della Grande Quercia… quello che vi ha condotti qui, diritto alla grotta, ditemi… cosa vi ha mossi a sceglierlo?!?”

Lentamente ognuno dei tre, con sforzo immane, iniziava forse ad aprire gli occhi, a vedere un nesso in quella serie infinita di sciocchi quesiti, posti dal Solingo quasi a canzonarli. 
Era come quando si cade in quel pozzo nero, in fondo, ricordate? Dopo i primi momenti di smarrimento, di disorientamento, lentamente i nostri occhi iniziano a distinguere nel buio più totale, forme e profili mai notati prima, proprio per compensare la perdita della vista stessa.

… 

“Sedete qui… vicino al fuoco e riposate le vostre membra… “

Vicino al fuoco…
… le vostre membra…
Riposate…
… riposate ora…

…


Il primo a destarsi fu Anacleto.
Sembrava che avesse dormito di seguito per ben ventotto tramonti…! Tanto da non comprendere se fosse il momento di desinare, o di prendere la falce per andare a lavorare nei campi di buon mattino. 
Trovò assopiti i propri compagni di viaggio, Goffredo biascicava qualcosa… segno che il suo risveglio era imminente. 
Otto fu l’ultimo, bofonchiando parole senza senso… prima che aprisse i propri occhi.

Si ritrovarono poggiati entrambi, con la schiena alla Grande Quercia.

Otto subito ricondusse il pensiero a quando il Grande Solingo l’aveva citata mentre poneva quelle sciocche… 
Un attimo...!!! 
Aspettate…!!!

“Ma allora… è stato solo un sogno?!?”
“Stanchi dal cammino inutile, ci siamo solo assopiti per riposare?!?”
Quel dubbio più che fondato, come un lampo, sfolgorò nelle loro menti ancora intorpidite!

All’unisono, tutti e tre i compagni di viaggio, si posero rispettivamente la stessa terribile domanda!

“Era solo un sogno… oppure voi ricordate che… “

Come un sole tiepido dopo una burrasca rischiara l’orizzonte, si confortarono nei loro racconti, racconti che ripercorrevano gli stessi fatti, le stesse identiche parole… Avevano vissuto certamente quello che rimembravano, Assolutamente!

Alzatisi per capire meglio come fossero giunti in quel luogo, sotto la Grande Quercia, ricordando benissimo invece, di essersi seduti intorno al fuoco con l’Eremita, cercarono a ritroso nella mente qualcosa… un frammento, un ricordo, una plausibile spiegazione… Ma ognuno arrivava solo e solamente ad una nenia, dei versi… che tanto timore avevano di rivelare… tanto da esser creduti pazzi dai rispettivi compagni… 

Otto nuovamente fu il primo… Non poteva non raccontare quello che gli ballava in testa… lo martellava… lo fece con la speranza, che anche loro avessero la stessa impellenza… 

“Io… Io devo dirvi una cosa… non posso tacerla… ma non vorrei essere visto come un uomo uscito di senno… “

Ancora tutti e tre si trovarono a dire la stessa medesima cosa… Ricordavano dei versi… 
Otto fu il primo…

“Vostro l’ardire nel piegar la Natura ai vostri servigi, per miseramente scoprire che alto è il prezzo da corrispondere per un così inutile, sciocco operare, che a nulla porta, che a nulla conduce!”

Goffredo prese fiato…

“Ciechi i vostri occhi verso la mano tesa di uno straniero, colpevole per voi, solo di non esser gente della vostra gente, sorde le vostre orecchie alle suppliche di chi meno ha, di chi perso ha tutto!”

Anacleto non attese cenno per proferire parola…

“Arido il vostro cuore quando guardate i vostri figli, conducete le vostre greggi, costruite il vostro nulla chiamandolo Domani, credendo che un Nuovo Mondo sia!”

Insieme senza alcun segno d’intesa recitarono…

“Male è il nome che date all’ultima occasione che donata ora vi è, risvegliare potete le briciole di Amore che sulla strada del Nuovo vi posson portare, decider potete se il buio è il vostro stato, oppure se viver nella luce volete…”






Tre uomini si ritrovarono a camminare nel tramonto, verso la propria casa… 





Un’unica cosa ora li accomunava come non mai, una ballata mai udita impressa nel cuore, il ricordo di un Saggio che mai avevano conosciuto…













La ballata del Solingo Eremita

“Vostro l’ardire nel piegar la Natura ai vostri servigi, per miseramente scoprire che alto è il prezzo da corrispondere per un così inutile, sciocco operare, che a nulla porta, che a nulla conduce!

Ciechi i vostri occhi verso la mano tesa di uno straniero, colpevole per voi, solo di non esser gente della vostra gente e sorde oramai le vostre orecchie alle suppliche di chi meno ha, di chi perso ha tutto!

Arido il vostro cuore quando guardate i vostri figli, conducete le vostre greggi, costruite il vostro nulla chiamandolo Domani, credendo che un Nuovo Mondo sia!

Male è il nome che date all’ultima occasione che donata ora vi è, risvegliare potete le briciole di Amore che sulla strada del Nuovo vi posson portare, decider potete se il buio è il vostro stato, oppure se viver nella luce volete…”